La ricostruzione ideologica del marxismo post-maoista

La necessità di compensazione di quel vuoto ideologico post-riforme e la crisi del marxismo di stato che aveva dominato la scena politica cinese durante gli anni di Mao Zedong (1893-1976), obbligarono le istituzioni governative ad implementare il sistema organizzativo con interventi volti a ricostituire un nuovo spirito di matrice nazionalista che divenisse base portante del nuovo progetto politico e che ridefinisse la centralità e l’indiscutibilità del Partito comunista cinese. L’allontanamento dall’ortodossia ideologica di Mao in seguito alla cattura della “Banda dei quattro” e l’esigenza di ridefinire i rapporti con il singolo, ora attore partecipante nella società dopo l’allentamento parziale delle restrizioni delle libertà individuali e le conseguenze sociali dopo i fatti di piazza Tienanmen, spinsero il Partito a recuperare la cultura tradizionale del passato, riabilitando tutte quelle istanze precedentemente condannate durante la Rivoluzione culturale. Si rese necessario rileggere in una nuova chiave, dunque, tutti quei movimenti contestati dalla Campagna anti-Lin Biao e anti-Confucio e restaurare i rapporti ambigui con le religioni e le filosofie della storia tradizionale. Va detto in tal senso che lo spirito antireligioso che caratterizzò il periodo della Repubblica popolare fu una diretta conseguenza della scelta indispensabile di non soccombere di fronte a valori estranei e di esorcizzare così il “secolo di umiliazione nazionale”, periodo che decretò la persistente presenza delle potenze occidentali fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Il controverso rapporto con le religioni fu emblematico: il PCC stesso infatti, nonostante l’applicazione pratica di politiche fortemente aspre e repressive nei confronti dei diversi culti antichi almeno fino alla fine degli anni Settanta, già dalla sua fondazione nel 1921 aveva considerato le stesse come parte integrante del sistema economico e in un certo senso, alleate «nella battaglia contro l’imperialismo e il feudalesimo» e la cui libertà di culto dovesse essere «garantita e rispettata». Tale aspetto venne confermato dalla pubblicazione nel 1982 del «Documento 19», che ne ribadì la propria legittimazione ma attraverso uno stretto rapporto cooperativo con il partito.

Foto di Chao Xu

Il recupero delle religioni e più in generale, della cultura classica, venne considerato come base essenziale per ricostituire i rapporti con il popolo e riallacciare quel legame paternalistico tra governo e cittadino, in linea con la concezione storica di stretta connessione e interdipendenza tra individuo e sovrano. L’importanza della cultura tradizionale nella costituzione di una nuova società collettiva si concretizzò in parte nel 1986, con l’approvazione della «Risoluzione sui principi guida nella edificazione di una società socialista dotata di una cultura e ideologia avanzate» attraverso la quale, venne formalizzata l’intenzione di costituire un «socialismo con caratteristiche cinesi» (Zhongguo tese shehuizhuyi), ponendo il marxismo come unico modello possibile e di «rafforzare il lavoro in campo ideologico e culturale», gettando le basi di quel processo di razionalizzazione scientifica che si formalizzò concretamente in seguito a partire da Hu Jintao.

Foto di Charl Durand

Il recupero della tradizione fu in quest’ottica funzionale per lo spirito nazionalista: nello specifico, l’attenzione maggiore fu rivolta al confucianesimo, dottrina che aveva caratterizzato la società cinese già dall’epoca imperiale e che di fatto aveva modellato ogni singolo aspetto della cultura e dell’educazione. I tentativi di conciliare la tradizione con il pragmatismo occidentale non furono tuttavia una novità: basti ricordare ad esempio tra i tanti, la figura di Kang Youwei (1858-1927) e il suo proposito di mettere in pratica gli insegnamenti di Confucio in una prospettiva occidentale ante litteram. Il sistema del maestro Kong in effetti, presentava alcuni aspetti che potevano sposarsi con le esigenze governative. Da un punto di vista politico esso prevedeva infatti l’importanza in senso filiale del suddito verso il sovrano, il rispetto reciproco verso i superiori e la centralità della prospettiva gerarchica della società. Peculiare è inoltre il carattere di razionalismo e di dinamismo che ne contraddistinse il pensiero: parafrasando Tu Weiming, la confucianizzazione della società fin dall’epoca delle Primavere ed Autunni fu effettivamente «un processo di razionalizzazione» e di umanizzazione, paragonabile al fenomeno parallelo dell’Illuminismo occidentale ma con caratteristiche autoctone. In entrambi i casi, elemento chiave è la centralità e l’operosità dell’uomo, visto nella concezione classica come artefice della continuità del mondo, chiave di volta dinamica dell’ordine cosmologico e oggi attore principale delle moderne operazioni di mobilitazioni di massa. L’essere umano è visto così come parte pienamente attiva e unificante «di tutto ciò che sta sotto il Cielo» e che ne presuppone così l’assenza di una qualsivoglia visione escatologica: il confucianesimo in tal senso, non può essere considerato come una forma di religione ma piuttosto un approccio fortemente etico caratterizzato da rigidi comportamenti rituali. Un attivismo a sua volta connesso alla necessità di apprendimento «assunta dall’essere umano che si impegna nel cammino dell’esistenza» e ad un miglioramento graduale della propria perfettibilità: non è casuale in questi termini come il termine cinese utilizzato per tradurre “religione” è zongjiao, dove jiao può essere tradotto con “insegnamento”, “educazione”, ma inteso non «come procedimento intellettuale, ma piuttosto di un’esperienza di vita». Il pensiero razionale e l’allontanamento da una visione puramente escatologica e più propriamente spirituale, si complementa in questo modo all’ateismo di base del socialismo classico e al materialismo liberista post-maoista, così come la figura stessa del letterato confuciano, alter ego dell’individuo illuminista, che si configura come protagonista del progresso scientifico-economico cinese.

Foto di Dong Men

Il confucianesimo fu una buona base culturale anche per giustificare le aperture inaugurate da Deng nell’ambito della politica estera, abbandonando quell’isolazionismo imposto alla popolazione da Mao. La ricostituzione di quei rapporti logori con le potenze occidentali, così come la volontà di affermazione della Cina nell’ambito globale, imponeva una svolta in senso “armonioso” partendo dalla ricostruzione della propria immagine all’estero e dalla trasmissione di valori di xin (“affidabilità”, “fiducia”). Fu in quest’ottica che entrò gradualmente quella visione globalizzante di he (“armonia”), che venne esplicitamente rievocata in seguito da Hu Jintao ed implementata come obiettivo strategico e come base della politica di soft power culturale che caratterizzerà in seguito il “Sogno cinese” (zhongguo meng) di Xi Jinping. 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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