Il jainismo: caratteristiche generali

Le forme ascetiche śramaṇiche più importanti che si contrappongono alla tradizione sacerdotale brāhmaṇica sono il buddhismo e il jainismo. Entrambe nascono nell’India settentrionale durante il VI-V sec. a.C. in un’epoca di profondi mutamenti sociali e contraddistinta dall’ascesa della casta guerriera degli kṣatriya. Nonostante l’origine geografica e temporale in comune, le divergenze tra le due visioni sono molteplici soprattutto a livello metafisico, in quanto i jaina contestano la concezione buddhista del karma e dell’impermanenza del Sé nelle cose. In particolare, il jainismo si contraddistingue per il concetto di ahiṃsā, ovvero negazione di ogni forma di violenza e per alcune estreme forme ascetiche ed alimentari. La dottrina jaina viene definita pluralista e dualista, infatti la propria cosmologia è caratterizzata dalla compresenza nell’universo (loka) di entità fondamentali costanti o sostanze (dravya), di diversi modi di presentazione di esse (paryāya) e di qualità (guṇa) in grado di produrre mutamenti nella forma della sostanza stessa. La dimensione dualista si nota nella costituzione delle entità fondamentali, che vengono suddivise in due categorie: da un lato l’anima (jīva), dall’altro tutto ciò che è non-anima o sostanza inanimata (ajīva): movimento (dharma), stasi (adharma), materia (pudgala), spazio (ākāśa) e tempo (kāla). Le entità fondamentali, «unite al fluire del karma (āsrava), il merito e il  demerito (papa e punya), il blocco del karma (bandha), l’impedimento di nuovo karma (saṃvara), la distruzione del karma bloccato (nirjarā) e la liberazione (mokṣa) formano i nove principi fondamentali del jainismo» (Torella, 2008, p. 109). Secondo il pensiero jaina, ogni azione condotta dall’individuo provoca un «invischiamento del jīva nella materia» (Tucci, 2005, p. 46), ossia una contaminazione (āsrava) che ne impartisce una determinata colorazione (leśyā) causandone un legame o blocco karmico (bandha) nel ciclo eterno del saṃsāra. L’arresto del flusso karmico (saṃvara), l’eliminazione (nirjarā) e la conseguente liberazione (mokṣa) si otterrà mediante un processo di purificazione, raggiungendo così la liberazione del jīva e lo status di siddha (perfetto).

Il tempo è rappresentato da una ruota a dodici raggi che gira su se stessa in un ciclo continuo ed eterno, divisa in movimenti ascendenti (utsarpiṇī) e discendenti (avasarpiṇī), a loro volta suddivisi in tappe che rappresentano le diverse ere cronologiche. L’ avasarpiṇī è contraddistinta da ere di graduale degrado, culminante con l’estinzione della dottrina stessa che rinascerà nella utsarpiṇī, quando appariranno in successione ventiquattro tīrthaṅkara («costruttori di guado») proclamando i Tre Gioielli, le guide etiche basilari per la dottrina jaina: retta fede, retta conoscenza, retta azione. L’ultimo tīrthaṅkara apparso e fondatore del movimento stesso è Mahāvīra, i cui insegnamenti vennero raccolti in diverse opere a seconda del tipo di comunità. In base a ciò, il corpus infatti viene distinto in due categorie: i digambara, che si presentano completamente nudi e gli śvetāmbara, cioè coloro che si «vestono di bianco» (Torella, 2008, p. 107). Il canone śvetāmbara è costituito da 45 testi comprendenti gli insegnamenti di Mahāvīra e svariati testi di natura metafisica, logica e teoretica, il tutto composto in una forma di pracrito (ardhamāgadhī) con l’intenzione di preservare una propria identità e autonomia dal sanscrito utilizzato dalla classe brāhmaṇica. Tuttavia, la necessità di rendere partecipe la visione jaina alle dispute erudite, fece in modo di passare all’uso più frequente del sanscrito relegando il pracrito a ristrette cerchie monastiche. Un esempio di questo passaggio è dato dall’opera fondamentale di Umāsvāti (IV-V sec. d.C.), il  Tattvarthasutra il quale, scritto in sanscrito e rivendicato sia dai digambara che dagli śvetāmbara, tenta di riassumere gli elementi caratterizzanti la dottrina di Mahāvīra, quali la cosmologia, i tratti logici-epistemologici, comportamentali e pratici. Proprio dal punto di vista logico-epistemologico, un’ulteriore dottrina rilevante è quella del non-assolutismo (anekāntavāda) e quella dei punti di vista parziali (naya). Data la molteplicità dei modi di manifestazione di ogni singolo oggetto, si riconosce l’impossibilità di accedere ad una completa e assoluta conoscenza di esso, poiché occorrerebbe nel soggetto, «un potere intellettuale adeguato all’infinitezza dell’oggetto» (Torella, 2005, p. 110) ed è quindi necessario riconoscere i propri limiti rifiutando ogni assolutismo, tuttavia senza ricorrere allo scetticismo tipico della visione Lokāyata. Dunque ogni asserzione non può ambire alla verità assoluta, ma piuttosto a «un parziale aspetto di essa» (Torella, 2005, p. 111). Complementare è la dottrina dei naya («giudizio parziale»), la quale prevede che ogni naya mantenga una propria validità a patto che se ne riconosca la parzialità e la necessità di accostarli ad altri per giungere a una conclusione onnicomprensiva. Il jainismo, secondo statistiche raccolte dal governo indiano, oggi conta più di quattro milioni di seguaci, concentrati nella parte nord-occidentale dell’India ed è dunque un movimento minoritario, ma conserva tuttora, nella sua arcaica e complessa dottrina, peculiarità tali da renderlo ancora protagonista nell’universo filosofico indiano.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

DUNDAS, PAUL, Il jainismo. L’antica religione indiana della non-violenza, Roma, Castelvecchi, 2005.

TORELLA, RAFFAELE, Il pensiero dell’India. Un’introduzione, Roma, Carocci, 2008.

TUCCI, GIUSEPPE, Storia della filosofia indiana, Roma-Bari, Laterza, 2005.

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