Principali forme di scrittura dell'India


Per poter analizzare l’origine e l’evoluzione nel corso della storia delle più importanti forme di scrittura autoctone indiane fino ad oggi decifrate, è necessario partire da uno sguardo generale dei sistemi tuttora esistenti. Ad oggi, è possibile individuare nel subcontinente indiano nove forme principali di scrittura. Tra queste il sistema più diffuso è il Devanāgarī, largamente esteso nelle aree settentrionali e in quelle centrali del paese. Nei settori meridionali, vanno menzionati il Telugu e il Tamiḻ, affermatisi nelle zone costiere orientali e le forme Kannaḍa e Malayāḷam, usate principalmente negli stati occidentali bagnati dall’oceano Indiano. Rilevanti sono anche il Gurmukhī, presente a nord nel Punjab, il Gujarātī nell’ovest, il Bengalese usato nel Bengala e in Bangladesh e l’Oṛiyā dello stato dell’Orissa.

Attraverso uno studio storico-comparativo di tali forme è stato possibile delinearne le diverse fasi evolutive e le matrici strutturali primigenie: ad oggi, escludendo le iscrizioni vallinde risalenti al III millennio a.C. tuttora sotto studio e le possibili origini semitiche, le più antiche forme di scrittura decodificate e ritrovate in forma epigrafica, vengono fatte risalire al III secolo a.C. in seguito alla scoperta archeologica delle iscrizioni di Aśoka con l’individuazione degli archetipici modelli Brāhmī e Kharoṣṭhī. A causa di un progressivo abbandono della matrice Kharoṣṭhī nel corso dei secoli, si ritiene che tutte le scritture comparse successivamente derivino dalla Brāhmī e come la stessa abbia influenzato anche sistemi esterni ai confini indiani: in particolare, gli studi condotti hanno confermato come essa si sia in realtà evoluta nel tempo in modo diversificato a seconda della posizione geografica.
In tal senso, a nord si sviluppò una prima variante Brāhmī definita Śuṅga,
progenitrice degli attuali sistemi Gurmukhī, Devanāgarī, Gujarātī, Bengalese e
Oṛiyā, mentre a sud si consolidò una matrice Brāhmī meridionale che si evolverà
nel corso dei secoli nelle odierne scritture Telugu, Kannaḍa, Malayāḷam e Tamiḻ.
Più precisamente, a partire dalla prima forma Śuṅga, comparsa intorno all’inizio del II secolo a.C., il Brāhmī settentrionale evolse nei successivi sette secoli assumendo diverse sfumature e denominazioni quali Kuṣāṇa e Gupta per poi, a partire dal 500 d.C., diversificarsi in due varianti regionali, la scrittura Proto-Śāradā, dalla quale si formeranno in seguito la Śāradā e Gurmukhī e la scrittura Siddhamātṛkā, cui seguiranno ulteriori processi evolutivi che porteranno alle attuali scritture Devanāgarī, Gujarātī, Bengalese e Oṛiyā. Per quanto riguarda il ramo meridionale, gli studi conducono ad un numero minore di stadi evolutivi: da una prima forma di Brāhmī, emersero a partire dal VII-VIII secolo d.C., le strutture Telugu-Kannaḍa da cui deriveranno le distinte Telugu e Kannaḍa e le forme Proto-Tamiḻ e Grantha Pallava, progenitrici rispettivamente delle attuali Tamiḻ e Malayāḷam. Dal punto di vista grafico, peculiare è la differenza stilistica tra i rami settentrionale e meridionale: nel primo caso, le scritture utilizzate per l’ampio gruppo delle lingue indo-arie risultano essere maggiormente spigolose e «dure» rispetto ai tratti arrotondati e armoniosi delle iscrizioni associate al gruppo linguistico dravidico. In generale la calligrafia indiana si presenta meno ricca, ma non completamente scevra, di quell’aspetto artistico ben più marcato in altre culture come quella persiana e cinese: una caratteristica che di fatto evidenzia, da parte indiana, la maggior sacralità e il maggior prestigio attribuito al carattere orale. Una tesi, che viene confermata anche dalla reticenza dei testi antichi nei confronti della trasmissione scritta: la stessa millenaria letteratura vedica non ne mostra alcun riferimento e quella successiva solo pochi cenni. Una maggiore attenzione a questo aspetto viene dato dalle correnti jainiste e buddhiste, nelle cui tarde letterature successive al II secolo a.C. e in particolare in quelle del canone pāli, i pochi riferimenti alla scrittura ricadono sui nomi delle forme Brāhmī e Kharoṣṭhī e sui supporti utilizzati per le iscrizioni.

Da un punto di vista tipologico, le scritture indiane presentano generalmente un sistema alfasillabario o abugida, analogamente a quello etiopico ge’ez, anche se, tra i due modelli, non sono ancora state trovate delle affinità tali da certificarne un certo grado di discendenza. Come detto in precedenza, l’evento spartiacque per lo studio dell’origine delle scritture indiane fu la scoperta delle iscrizioni di Aśoka e la decifrazione delle forme Brāhmī e Kharoṣṭhī ad opera dell’orientalista inglese James Prinsep (1799-1840). Disseminate in diverse zone interne ed esterne all’India, gli editti del sovrano furono redatti perlopiù in Brāhmī, tranne due importanti iscrizioni in Kharoṣṭhī situate al confine nord-occidentali del Gandhāra, considerata per questo zona di origine e di diffusione in quanto tutti i più antichi documenti in lingua pracrita-Gandhāri finora ritrovati, furono scritti con tale forma. Qualche
secolo più tardi, il Kharoṣṭhī, divenuto scrittura ufficiale delle diverse dinastie regnanti successive, verrà utilizzato anche per trascrivere il sanscrito: esso conoscerà il proprio apice nell’area del Gandhāra intorno al III secolo d.C., mentre inizierà il proprio declino, scomparendo gradualmente dalla regione, a partire dal IV secolo d.C., in concomitanza con la fine dell’impero Kuṣāṇa (I-III secolo d.C.). Sotto il regno di questa dinastia tuttavia, le scritture in Kharoṣṭhī si diffusero anche nell’India centrale, a Mathurā, antica capitale Kuṣāṇa e in Centro Asia nell’area del Bacino del Tarim, punto nevralgico delle vie carovaniere della Via della Seta che favorirono lo sviluppo di diverse civiltà nelle zone desertiche limitrofe. Queste condizioni favorevoli contribuirono ad una forte diffusione della scrittura Kharoṣṭhī soprattutto in ambito amministrativo e letterario: fu proprio in quest’area che iniziò, a partire dei primi secoli dopo Cristo, a diffondersi verso l’Asia orientale il pensiero buddhista. Nel Bacino del Tarim la scrittura Kharoṣṭhī riuscì a sopravvivere qualche secolo in più rispetto al centro originario del Gandhāra: secondo alcuni studiosi forse fino al VII secolo d.C.

Nel caso della scrittura Brāhmī e in particolare della sua variante settentrionale Śuṅga (II-I secolo a.C), le iscrizioni principali di riferimento sono quelle ritrovate negli stūpa buddhisti Sanchi e Barhut, nella colonna di Besnagar e nei siti di Chittorgarh e Ayodhya: in questo caso  le iscrizioni si presentano sotto una forma linguistica proto-sanscrita. La Brāhmī settentrionale subì ulteriori evoluzioni e iniziò a distinguersi sempre più marcatamente dalla variante meridionale, quest’ultima soggetta alle interazioni con gli idiomi dravidici. Tra il I-III secolo d.C. si concretizzò la forma Kuṣāṇa mentre a livello epigrafico iniziò ad affermarsi come lingua il sanscrito e in generale si sviluppò una tendenza a «sanscritizzare» i diversi gerghi regionali. Emblema di questo periodo è l’iscrizione rupestre di Rudradāman, a Junagadh. Nel periodo successivo, distinto dal dominio della dinastia Gupta (IV-VI secolo d.C.), la Brāhmī evolve nella variante omonima, mentre parallelamente, il sanscrito viene formalizzato come unica lingua epigrafica. La conclusione del periodo Gupta coinciderà con la fine del potere centrale e quindi del processo di standardizzazione della scrittura, favorendo così, a partire dal VII secolo d.C., la configurazione delle prime forme regionali. Comparvero così, da nord a sud, le scritture Proto-Śāradā, Siddhamātṛkā, Telugu-Kannaḍa, Vatteluttu, Proto-Tamiḻ e il Grantha per il sanscrito. Tra queste, la Siddhamātṛkā  (VII-X secolo d.C.) divenne una delle più importanti, da un lato perchè da essa derivarono le successive scritture del nord tra le quali la Devanāgarī e dall’altro, perché ebbe una grande diffusione anche al di fuori del subcontinente indiano e soprattutto in Cina, dove venne utilizzata per trascrivere i testi buddhisti. Dal X secolo d.C., dalla Siddhamātṛkā si formarono la Nāgarī, dalla quale derivarono la Devanāgarī, Gujarātī e Nandināgarī e il Proto-Bengalese o Gauḍī dalla quale emersero tra gli altri gli odierni sistemi Bengalese e Oṛiyā. A partire dal medesimo secolo, dalla Proto-Śāradā si formarono la Śāradā e la Gurmukhī, utilizzata quest’ultima per la trascrizione del libro sacro dei Sikh. Nel versante Brāhmī meridionale, dalla Telugu-Kannaḍa si originarono invece la scritture non troppo dissimili Telugu e Kannaḍa, mentre a sud, dalle forme Proto-Tamiḻ e Grantha Pallava, nacquero le strutture Tamiḻ e Grantha. A partire dal XIV secolo infine, si sviluppò dalla Grantha la forma odierna Malayāḷam, utilizzata per scrivere l’omonima lingua parlata in Kerala.

Relazione personale di un seminario tenutosi all’Università di Bologna.

 

Foto di Navneet Shanu

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